31 agosto 2010

The Informant!

Col punto esclamativo, sì.

Diretto da Steven Soderbergh e tratto dal libro omonimo di tal Kurt Eichenwald, in The Informant! abbiamo come protagonista Mark Whitacre, un dirigente di una multinazionale americana che produce lisina che si ritrova a collaborare in incognito con la FBI per smascherare gli accordi di cartello che la sua e le altre compagnie del settore stanno intavolando per gonfiare artificialmente i prezzi.

Whitacre ha la faccia di un Matt Damon che, contrariamente alle mie aspettative, è bravissimo a esprimere la complicata personalità del personaggio. Whitacre è una di quelle persone che si fa fatica a inquadrare: a una prima impressione sembra un perfetto imbecille, ma ogni tanto mostra segni di inaspettata brillantezza, e ti fa venire il dubbio che faccia solo finta di esserlo, un imbecille.

La regia di Soderbergh è raffinata e precisa come al solito, ma stavolta non ruba la scena agli attori e alle loro vicende. Va da sé che Damon e il suo personaggio siano la cosa migliore di un ottimo film che gioca con scioltezza a fare la commedia, il dramma umano e il thriller. Inizia un po' lento, ma poi si rivela molto più complicato e interessante di quanto sembrasse inizialmente.

26 agosto 2010

Un prophète

La mia ricerca sulla relatività dello scorrere del tempo continua. Il nuovo caso a sostegno di questa teoria è Un prophète, filmone francese di 155 minuti che agli ultimi César, gli Oscar del cinema francese, ha raccolto la bellezza di nove premi. Quando, per pura curiosità, ho controllato quanto tempo era passato dall'inizio del film, il display indicava un'ora e 45 minuti... più dell'intera durata di un Sin Nombre a caso!

Mettendo da parte tutto l'odio atavico e calcistico che si può avere per i francesi, bisogna ammettere che Un prophète è un film clamorosamente bello, decisamente uno dei più belli che ho visto degli ultimi anni. Intanto non annoia mai, nonostante abbia pochi momenti di azione vera e propria e sia ambientato per larga parte in un carcere. È intenso come raramente accade, con alcune scene che creano una tensione davvero palpabile, grazie anche alle ottime interpretazioni di tutto il cast, Tahar Rahim nel ruolo del protagonista Malik e Niels Arestrup nel ruolo del boss corso in testa. E poi riempe i 155 minuti di durata con contenuti e spunti di riflessione etici e morali.
Il protagonista Malik è un diciannovenne francese di origini arabe condannato a sei anni di carcere per un non meglio specificato reato. Il film lo segue nella sua crescita come persona e come delinquente, due percorsi che vanno di pari passo. Da un lato noi spettatori stiamo male a vederlo trattato male dagli altri carcerati, ma dall'altro ci rendiamo conto che, per sopravvivere, Malik deve diventare come e peggio di loro. Il regista Audiard mischia continuamente le carte sotto questo punto di vista, lasciando a noi la decisione se "fare il tifo" per Malik oppure disapprovare il suo comportamento.

Il risultato è un film che narra della trasformazione da ragazzo a uomo di Malik, nel contesto sociale del carcere e di una Francia alle prese con gli scontri malavitosi e non tra gruppi etnici.

23 agosto 2010

Thank You For Smoking

Altro film di Jason Reitman, il suo d'esordio per la precisione uscito nel 2005, e altro centro, manco a dirlo.

Thank You For Smoking è una commedia tratta dall'omonimo romanzo di Christopher Buckley e narra di Nick Naylor, un uomo che fa un lavoro che molti definirebbero, scusate il francesismo, di merda: è il portavoce della società che si occupa di realizzare studi sugli effetti del tabacco e della nicotina sulla salute dell'uomo. Peccato che questa società sia interamente finanziata dalle multinazionali che producono sigarette e che l'unico suo obiettivo sia dimostrare che fumare non fa poi così male come tutti vogliono farci credere.

Tuttavia, il fumo è solo un pretesto in un film che parla soprattutto di un uomo. Un uomo che dovremmo detestare per quello che fa e dice, ma che finiamo per adorare. Questa è un po' una caratteristica dei film di Reitman, che hanno sempre dei protagonisti non esattamente simpatici (come appunto Juno del film omonimo e Ryan Bingham di Up In The Air), ma che per un motivo o per l'altro ci conquistano. Le vite di Naylor e Bingham hanno molti aspetti in comune, così come li hanno le loro crescite come persone nel corso del film.

Peccato aver visto questo Thank You For Smoking solo ora dopo Juno e Up In The Air, perché mi sono un po' perso il gusto della scoperta di un regista che ha già dimostrato di avere una sensibilità cinematografica straordinaria e una capacità non comune di raccontare con naturalezza storie di persone normali. Non solo, è anche bravissimo a dirigere chiunque, con il risultato di avere uno splendido Aron Eckhart nel ruolo di Naylor. Insomma, Reitman finora ha fatto tre su tre, hai detto niente.

17 agosto 2010

Das weisse Band

Ammetto subito la mia ignoranza e confesso che prima di vedere Il nastro bianco (rigorosamente in lingua originale con sottotitoli in inglese) non avevo mai sentito nominare il regista Michael Haneke.
Ecco, ora che ho rivelato che di cinema non capisco poi così tanto, posso andare avanti.

Eviterò di parlare della trama, perché molto del fascino del film risiede proprio nell'addentrarsi lentamente (ma MOLTO lentamente, considerato il passo della narrazione) nella vita del villaggio della Germania del nord che fa da teatro alla vicenda. Anche se si potrebbe pensare che questa storia sia tipicamente tedesca, il messaggio è universale e può essere applicato facilmente in altre realtà. Altrettanto simbolico è il periodo storico in cui si svolge il film, vale a dire i mesi che precedono lo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

Das weisse Band è un discreto mattoncino, va detto, ma è anche un film intenso e inquietante. La solo all'apparenza pacifica vita del villaggio rurale trae in inganno e amplifica l'impatto che i crudi eventi che ne turbano l'armonia in maniera irreparabile hanno sui suoi abitanti e sullo spettatore.
Haneke pone molte domande nel corso del film, ma non dà nessuna risposta. Girato interamente in freddo e simbolico bianco e nero, Das weisse Band lascia lo spettatore con molti dubbi: dubbi su quello che è accaduto effettivamente nel villaggio, su chi ha fatto cosa, su chi è colpevole di quale nefandezza. Come se non bastasse, ci lascia anche incerti su quello che questa storia rappresenta: una descrizione delle origini del fascismo e del nazismo, l'eterna ricerca dell'equilibrio tra libertà personali e sicurezza, la linea che divide colpa e punizione.

Haneke non fa nulla per farci arrivare facilmente alla fine delle due ore e 20 minuti di durata del film, ma la ricompensa è un film girato splendidamente carico di significanti e significati.

14 agosto 2010

Gomorra

Il film, non l'omonimo libro di Saviano da cui è, ovviamente, tratto questo lungometraggio diretto da Matteo Garrone e che non ho ancora letto.

Gomorra narra cinque storie di persone che hanno a che fare a vario titolo con la camorra. Persone che non sono necessariamente delinquenti, ma che loro malgrado si ritrovano coinvolti con la camorra anche quando la loro vita sembrerebbe non aver nessun punto di contatto con la malavita. Racconta anche del mondo in cui vivono con uno stile molto simile a quello di un asettico documentario. Anche se la posizione di Garrone può essere facilmente intuita, il film non emette giudizi sui personaggi e sulle loro vicende, ma si limita a mostrarceli nella maniera più neutra e cruda possibile e senza filtri di sorta.
È soprattutto per questo che l'impatto emotivo e visivo di Gomorra è così forte. Le immagini dello spaccio a cielo aperto di Scampia sono davvero impressionanti, così come lo sono le "avventure" di Ciro e Marco, due ragazzini cresciuti nel mito di Scarface e convinti che la vita del malavitoso sia fatta solo di droga e belle donne.

È difficile rimanere indifferenti di fronte a Gomorra. Non tanto perché riveli qualcosa di ignoto e mai sentito prima, quanto piuttosto per il fatto che il mondo che racconta riesce ad andare oltre quello che si può immaginare dall'esterno. Viene naturale pensare che è impossibile che le cose stiano davvero così, che uomini, donne, ragazzi non finiscano morti ammazzati come se niente fosse, ma il messaggio di Gomorra è proprio questo, senza retorica né paternalismo.

11 agosto 2010

Chloe

Tira più un pelo di figa che un carro di buoi.

Parole più vere non furono mai scritte, non ci sono dubbi. Altrimenti non si spiegherebbe come Roger Ebert, stimato critico cinematografico del Chicago Sun-Times, sia riuscito a dare tre stelle e mezzo (su un massimo di quattro) a Chloe.
Ed è anche il motivo per cui io alla fine ho messo da parte i dubbi e ho deciso di guardare questo film che aveva tutte le caratteristiche della vaccata. Anzi, due motivi.
Ma gnocca a parte, di che parla 'sto Chloe? Be', c'è Julianne Moore che è in crisi, convinta che il marito Liam Neeson le metta le corna con tutte le donne che incontra, e che per questo motivo ingaggia la prostituta Amanda Seyfried per mettere alla prova la fedeltà dell'uomo e, ovviamente, le cose non andranno esattamente come previsto (anche se, diciamocelo, cosa crisbio potevi prevedere a parte che ne sarebbe seguito un gran casino?).

Al di là del fattore gnocca, Chloe lascia intravedere di tanto in tanto un intreccio interessante, ma è tutto sprecato da una scrittura pessima e una regia altrettanto poco ispirata. I dialoghi strappano risate involontarie da tanto sono ridicoli e scontati, mentre gli attori, che sappiamo essere gente di talento, sembrano tutti appena usciti da una serie di provini per La Corrida del buon Corrado. Verso la fine del film c'è un dialogo tra Liam Neeson e Julianne Moore che fa capire quanto bello avrebbe potuto essere Chole se fosse stato scritto e diretto come si deve e se gli attori ne avessero avuto davvero voglia, così come è verso la fine che si capisce dove voleva andare a parare la storia con il più classico dei momenti "Ah, ecco!". Peccato che il resto del film manchi di costrutto e fallisca completamente nel creare nello spettatore tensione per la vicenda ed empatia per i personaggi.

Ed è qui che torniamo alla gnocca, perché effettivamente Amanda Seyfried e Julianne Moore sono un gran bel vedere, ma sarebbe stato decisamente meglio scaricarsi da internet i pochi minuti di filmati in cui mostrano le loro grazie e risparmiarsi la restante ora e mezza di supplizio.

8 agosto 2010

Sin Nombre

Lo scorrere del tempo è relativo, ne ho ormai la certezza e ne ho le prove per sostenerlo.

La prima prova è Avatar, il colossal di James Cameron che dura la bellezza di 160 minuti; due ore e 40 minuti che sembrano volare, non si ha il tempo di cominciare a chiedersi che ora è che il film è già finito.
La seconda prova è Sin Nombre, film diretto da Cary Fukunaga che, con la sua ora e mezza abbondante di durata, sembra non finire mai. A un certo punto della visione, preso dalla disperazione e dalla sensazione di essere rimasto seduto davanti allo schermo per ore, ho controllato il tempo trascorso e il timer segnava un'ora e otto minuti. Erano passati solo 68 fottutissimi minuti duranti i quali le mie gonadi sono invecchiate di almeno un decennio.

Ma perché con Avatar il tempo è volato e con Sin Nombre mi è sembrato di essere sottoposto alla tortura della goccia d'acqua in testa tanto cara a Torquemada? Sarebbe troppo facile rispondere perché Sin Nombre è un film di merda, ma sarebbe anche, ma non troppo, ingiusto. Ci sono tre trame che si sovrappongono e intersecano durante il film: quella di Willy "Casper", membro di una banda di delinquenti di una città messicana, e del dodicenne Smiley che è appena entrato a farne parte; poi c'è Sayra, ragazza honduregna che inizia con il padre e lo zio un viaggio della speranza attraverso il Messico per raggiungere i loro parenti in New Jersey negli Stati Uniti; infine c'è la relazione che si crea tra Sayra e Casper quando quest'ultimo uccide Lil' Mago, il capo della sua banda, mentre questi si apprestava a violentare la ragazza.

Di elementi di potenziale interesse il film ne avrebbe anche, ma la narrazione e i dialoghi affossano senza possibilità di appello qualsiasi voglia di appronfondirli. La rappresentazione dei meccanismi interni della banda sono al contempo affascinanti e scioccanti, così come lo è vedere cosa sopportano gli emigranti nel corso del loro viaggio verso la speranza, ma quello che dovrebbe fare da collante, vale a dire la relazione che si sviluppa tra Sayra e Casper, non è credibile e danza pericolosamente sui confini del ridicolo. Fukunaga farebbe meglio a imparare da City of God e Slumdog Millionaire.
Regia, fotografia, montaggio e recitazione sono di altissimo livello, va detto, ma Sin Nombre è troppo, troppo noioso, al punto di dilatare la percezione del tempo di chiunque abbia la sventura di guardarlo. È un buco nero cinematografico da cui fortunatamente si riesce a fuggire.

P.S. I critici sembrano essere d'accordo nel dire che Sin Nombre è un gran film. Sarà...

5 agosto 2010

Toy Story 3

Scrivere dei film della Pixar è quasi noioso. A parte Cars che è piacevole senza essere niente di straordinario, tutte le altre pellicole sono una più bella dell'altra ed è solo questione di gusti personali scegliere quale sia la migliore.

Toy Story 3 non fa eccezione e conferma per l'ennesima volta, nel caso qualcuno avesse ancora qualche dubbio, che alla Pixar hanno trovato il segreto della immortalità creativa. Altrimenti non si spiegherebbe come riescano sempre e comunque a tirare fuori film così belli.
In questo terzo episodio delle avventure di Woody e Buzz fa capolino più che nei due film precedenti la malinconia, la consapevolezza che crescendo si deve lasciare indietro qualcosa, anche i ricordi più cari. Quello dei giocattoli è un percorso che può essere metafora di tante cose, tutte più o meno scontate e ovvie, ma, come al solito, Pixar ce le racconta senza retorica e si limita a dipingercele per quello che sono: episodi che abbiamo vissuto più o meno tutti e che per questo ci toccano nel profondo. Tuttavia, anche se commuove, Toy Story 3 non è film triste, tutt'altro, è piuttosto una celebrazione di quello che ci portiamo dentro della nostra infanzia, dei compagni veri e non che ci sono stati a fianco in quei giorni.

Dei tre film forse questo è quello che ho trovato meno bello (pur rimanendo solo ottimo, eh), con una prima parte meno comica e più riflessiva, ma quando poi decolla, non si atterrerà fino alla fine. Eviterò di scrivere i soliti superlativi che si usano per parlare dei film della Pixar e mi limiterò semplicemente a ripensare agli splendidi momenti passati al cinema davanti allo schermo. Magari versando una lacrimuccia per il mio giocattolo preferito abbandonato chissà dove.

2 agosto 2010

Up In The Air

Sono un po' invidioso, lo ammetto.

Invidioso di uno come Jason Reitman che a 32 anni ha già girato tre film. Però sono bravi tutti a girare tre film del menga, basta andare a scorrere la filmografia di gente come Uwe Boll o M. Night Shyamalan, mentre il figlio d'arte Jason (suo padre è Ivan, mica l'ultimo degli imbecilli presi per strada) ha fatto film tre signori film (di cui mi manca il primo, Thank You For Smoking, ma che guarderò quanto prima).

Il suo film più recente è Up In The Air, che agli ultimi Oscar ha raccolto numerose, e meritatissime, nomination, ma nessun premio.
Ma il film di che parla? C'è un protagonista, Ryan Bingham, interpretato dal come solito bravissimo George Clooney, che sta a casa meno di due mesi all'anno e che per il resto del tempo è in viaggio per lavoro, da una città all'altra degli Stati Uniti per conto della sua ditta specializzata nell'outsourcing dei licenziamenti: in pratica Bingham viene pagato per licenziare, e sorbirsi le conseguenti reazioni, gli impiegati di una ditta al posto dei loro capi. E sì, è un lavoraccio, che però lui fa con un tatto e una delicatezza che non ti aspetti. Il personaggio di Bingham è freddo e distaccato nelle sue pressocché inesistenti relazioni personali; ha addirittura creato una filosofia di vita che sostiene che parenti, amici e relazioni di qualsiasi tipo siano solo un bagaglio che ci appesantisce e rallenta nei nostri spostamenti emotivi e non. È difficile trovare motivi per farsi piacere uno come Bingham, ma Clooney riesce a donargli una dimensione umana che va oltre il suo freddo cinismo. E poi ci sono i due personaggi femminili di supporto, le bravissime Vera Farmiga e Anna Kendrick, che, in modi totalmente diversi, fanno breccia nella fortezza di solitudine e bagagli a mano nella quale si nasconde Bingham.

Reitman figlio gioca a fare l'equilibrista in Up In The Air, giostrando agilmente tra commedia e dramma e senza mai eccedere in nessun caso. Evita abilmente le cadute di stile e i momenti strappalacrime scontati, cosa che è sempre più rara vedere. Il suo è un film intelligente e pungente, che però rimane accessibile a tutti e, soprattutto, godibilissimo.
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